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A colloquio con Carlo Maria Ferro: ecco perché serve fare sistema

di: Redazione | 18 Maggio 2020

Sistema Paese: due parole a volte abusate, a volte calate in contesti inappropriati o di cui non si colgono i valori, allo stesso tempo sono due parole dietro le quali si trovano le forze vive dell’Italia, secondo Paese manifatturiero in Europa, tra i grandi protagonisti industriali del globo. E per l’Italia, che ha un sistema economico prevalentemente fondato su piccole e medie imprese, su distretti industriali, consorzi e cooperative, crescere in mercati che presentano grandi potenzialità e allo stesso tempo richiedono gioco di squadra, fare sistema significa unire le forze e limitare il rischio d’impresa. Ad esserne convinto è Carlo Maria Ferro, presidente di Ice-Agenzia dal gennaio del 2019, come ha spiegato in una lunga intervista pubblicata a ottobre sui Quaderni di Africa e Affari, in occasione di un business forum organizzato da Ice ad Addis Abeba, in Etiopia.

“Sistema Paese – ha detto Ferro prendendo ad esempio l’iniziativa tenuta in Etiopia – è presentarsi come abbiamo fatto in questo caso insieme alle rappresentanze delle associazioni imprenditoriali, delle associazioni bancarie, insieme al sistema Cassa depositi e prestiti con Sace e Simest, insieme al ministero degli Affari esteri e a quello dello Sviluppo economico e sotto l’egida della viceministra degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale Emanuela Del Re”.

Lo scopo della missione in terra etiopica era continuare ad approfondire l’opportunità per le tecnologie e le industrie italiane di essere partner di uno sviluppo economico che in questo Paese del Corno d’Africa è particolarmente rapido e in cui è possibile individuare prospettive significative. Tutto ciò, in accompagnamento e nel quadro di una relazione politico-diplomatica e di diplomazia economica che già vede una forte amicizia tra Italia ed Etiopia.

Come in Etiopia, così in altri Paesi, negli ultimi anni Ice ha moltiplicato gli sforzi per aumentare la presenza sul territorio e fare in questo da modo da ponte e punto di contatto tra le realtà del sistema produttivo italiano e mercati in crescita benché complessi o a volte semplicemente da decifrare secondo parametri diversi rispetto a quelli impiegati in altre zone del globo.

Restando al caso dell’Etiopia, è evidente come si tratti di un Paese che accanto a grandi potenzialità abbia anche alcune criticità di cui tener conto. Leggerne il quadro politico per valutarne la stabilità – sapere per esempio che nel 2020 ci saranno elezioni considerate decisive per l’attuale primo ministro Abiy Ahmed – o ancora più semplicemente avere un quadro delle normative relative a un particolare settore o ancora individuare un partner affidabile, può essere per una piccola e media impresa un’operazione che non soltanto richiede tempo ma che nel caso di errori può anche avere costi significativi da sopportare. Oppure, sapere prima di avviare una qualunque attività che l’Etiopia ha un problema di disponibilità di valuta estera può essere un fattore decisivo rispetto a una valutazione da fare e una decisione da prendere.

Nell’intervista, di cui forniamo uno stralcio, Carlo Maria Ferro sottolinea proprio questo aspetto. Se la forza dell’Italia poggia su un sistema produttivo ed economico imperniato su realtà piccole e medie, è evidente come un gioco di squadra regolato dalle istituzioni e da agenzie pubbliche o a partecipazione pubblica possa essere la strada da seguire.

D’altra parte, come spesso sottolineato dalle rappresentanze diplomatiche italiane all’estero – e da quelle in Africa in particolare – un’impresa che intenda operare in un dato Paese dovrebbe muoversi coordinandosi con le istituzioni italiane presenti in loco già in avvio dei lavori e, ancora prima, in fase di progettazione. Presentarsi in ambasciata o al consolato, come spesso avviene, quando le problematiche sono già nate potrebbe non consentire di avere il tempo sufficiente per trovare una soluzione.

Presidente Ferro, quanto è importante presentarsi come Sistema Paese e come filiere organizzate per un’Italia che storicamente ha visto le imprese muoversi in maniera isolata l’una dall’altra? E per un Paese che forse ricade non ha torto in quell’immagine dei mille campanili e di un individualismo che se in alcuni contesti può essere positivo in altri rischia di lasciarci indietro rispetto ai nostri più immediati competitors?

Fare Sistema è due volte importante: uno, per la collaborazione tra istituzioni pubbliche e imprese private, particolarmente in Paesi in cui opportunità di business sono associate alla cooperazione economica e ai rapporti bilaterali generali. Due, è importante per portare un’offerta di filiera, particolarmente decisiva per l’Italia che ha una tradizione di cluster industriali in cui l’eccellenza del prodotto finito è il risultato delle eccellenze dei diversi nodi della catena del valore a monte del prodotto finito. Per cui quando abbiamo affrontato per esempio il dialogo sul settore del tessile, si è parlato anche di macchinari per l’industria tessile o, per l’agricoltura, della meccanizzazione dell’agricoltura e di tutto quello che in questo ambito possiamo mettere a disposizione. È stata in definitiva l’opportunità di portare un set di tecnologie la cui eccellenza è testimoniata dall’eccellenza stessa del prodotto finito e dalla leadership che l’Italia può indubbiamente vantare su una lunga serie di settori.

Parliamo di prodotti, ma possiamo parlare anche di modelli che l’Italia è in grado di proporre? I distretti, come accennava lei, hanno segnato l’industrializzazione dell’Italia del dopoguerra.

In Etiopia abbiamo lanciato l’idea del modello dei centri tecnologici per la formazione. Significa che il sistema pubblico, cioè l’Agenzia Ice e le associazioni della filiera a cui il centro sarà dedicato, potranno investire congiuntamente per offrire la possibilità di formare giovani e forza lavoro sui processi tecnologici più innovativi portati dall’industria italiana.

È evidente che c’è un aspetto importante di cooperazione nello sviluppare il saper fare industriale nel Paese partner, è anche evidente che c’è un’opportunità perché se queste tecnologie diventano quelle di riferimento quando domani ci sarà un’accelerazione nell’installazione delle capacità produttive, le imprese italiane saranno in prima linea per poterne essere fornitori.

Un simile modello lo abbiamo per esempio sperimentato in Vietnam. Lì abbiamo iniziato con la filiera delle calzature, abbiamo poi esteso il modello alla filiera del trattamento e della tintura delle pelli e abbiamo quindi lanciato un terzo round per l’industria dei macchinari del marmo. Questo esempio del Vietnam dimostra che si tratta di un modello che funziona molto bene e che anche in Paesi leggermente più avanti ma con uguali prospettive di crescita dell’Etiopia può essere di grande interesse.

Presupposto è quindi un dialogo tra le parti in cui a vincere sono entrambi i soggetti. Ovvero una collaborazione alla pari, che è poi l’obiettivo messo avanti dagli stessi Paesi africani oggi più che mai costretti a coniugare lo sviluppo economico con la grande spinta demografica e con macrotendenze storicamente nuove almeno in termini quantitativi se solo si pensa al processo di urbanizzazione e alla spinta delle rinnovabili in campo energetico.

Il business vive di dialogo. Il win-win è l’unica soluzione per trovare opportunità reciproche e normalmente l’opportunità deriva dalla complementarietà delle risorse, del saper fare e di ciò che ognuno può portare. Credo che rispetto a queste realtà l’industria italiana e l’università, i centri di ricerca italiani, possono portare un saper fare unico al mondo in così tante filiere industriali.

Quanto è difficile per un’impresa italiana di piccole dimensioni muoversi in contesti come quelli dei Paesi africani, ancora poco conosciuti dalle nostre imprese e quindi con un grado di complessità diverso rispetto ad altri mercati?

Non vorrei e non sarebbe corretto fare una classifica delle complessità di un singolo Paese, ma certo ognuno ne ha, che siano di carattere regolatorio o di rischio Paese o valutario.

Quindi per imprese soprattutto di piccole dimensioni che arrivano in un Paese nuovo, i servizi che possiamo offrire sono importanti perché aiutano ad acquisire confidenza sulle opportunità di mercato e siccome gli investimenti anche in una rete promozionale derivano da una valutazione costi-benefici attesi, l’incertezza nel piano dei benefici è quella che qualche volta porta le imprese a non muoversi.

In tal senso, il nostro ruolo e quello degli uffici esteri è quello di migliorare la visibilità e il grado di confidenza degli imprenditori italiani sulle loro attività all’estero in modo da facilitare queste attività e gli investimenti. L’obiettivo è allargare il numero degli esportatori italiani oltre ad assistere chi è già presente.

Consideri che oggi l’Italia ha oltre 200.000 esportatori ma solo 87.000 sono esportatori che definiamo sistematici, cioè che vanno su almeno cinque mercati diversi.

Quello che dobbiamo fare è aumentare il numero degli esportatori sistematici, favorire questo tipo di processo, e riconosciamo che oggi chi ha maggiormente bisogno di questo tipo di supporto sono soprattutto le piccole imprese.

Ecco come nasce quella che io chiamo la nuova direzione dell’Ice, che è una maggiore attenzione alle piccole imprese, a mondi nuovi rispetto alla nostra tradizionale attività, quindi agli artigiani, al mondo dell’agricoltura. Siamo, in altre parole, un’agenzia di servizi a disposizione dell’intero Sistema Paese.

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