di: Tommaso Meo | 1 Ottobre 2025
Aerei da combattimento, satelliti, sistemi missilistici e infrastrutture informatiche dipendono tutti da un approvvigionamento costante di minerali critici, così come i sistemi di energia pulita al centro della transizione verde. Chi controlla queste catene del valore assume un ruolo guida sia nell’economia globale sia nelle questioni di sicurezza. Il tema è stato al centro di un dibattito durante il Warsaw Security Forum, dove si è discusso di come trasformare la competizione per le risorse in una relazione più equilibrata.
Mentre la Cina domina le catene del valore dei minerali – dal cobalto al nichel fino alle terre rare – l’Europa si trova in una posizione di vulnerabilità. Dipende da un approvvigionamento costante di minerali critici per la difesa, la competitività tecnologica e la transizione green, ma dispone di scarsissime capacità di produzione mineraria e lavorazione. L’Africa, con circa il 30% delle riserve minerarie mondiali, offre quindi un’opportunità cruciale per l’Europa di diversificare le sue fonti di approvvigionamento, riducendo la dipendenza da Pechino.
Oltre il ruolo di fornitori
I governi africani vogliono però andare oltre il ruolo di meri fornitori di materie prime e trarre vantaggio dalla produzione locale, come ha ricordato Maddalena Procopio, senior policy fellow dell‘European Council on Foreign Relations (Ecfr), che ha moderato il panel. “La storia degli investimenti stranieri, in particolare dall’Europa all’Africa, è stata caratterizzata dal paternalismo, piuttosto che dalla partnership” ha sottolineato l’ex ministro nigeriano per lo Sviluppo dei minerali Kayode Fayemi.
Secondo Joao Gomes Cravinho, inviato dell’Unione Europea per il Sahel, il primo ostacolo a una nuova alleanza tra le due sponde del Mediterraneo è proprio la fiducia. Esiste oggi in Africa un “profondo senso di divergenza con l’Europa a causa della profonda frustrazione per i fallimenti della governance locale nel corso dei decenni”. In molti casi la colpa viene attribuita dagli africani agli europei e alle compagnie minerarie occidentali, accusati di aver sostenuto governi corrotti e inefficaci per continuare a depredare il continente.
Il rischio del nazionalismo minerario
Questa percezione, che anche Fayemi riconosce come problema reale, ha portato paesi guidati da giunte militari, come Mali e Burkina Faso, a cavalcare questo sentimento e a estromettere gli occidentali dal settore, aumentando il coinvolgimento dello Stato nelle operazioni minerarie. Una soluzione troppo individualistica e radicale, secondo l’ex ministro nigeriano. La risposta avrebbe maggiore forza se fosse collettiva e collaborativa, “senza necessariamente allontanare gli investitori dal continente” e affidarsi ad attori ancora più opachi, come la Russia e l’Afrika Corps, interessati solamente a drenare risorse dal continente.
I flussi illeciti miliardari che lasciano l’Africa ogni anno rappresentano un’altra preoccupazione per Fayemi, che cita tra le iniziative di responsabilità l’Eiti (Extractive Industries Transparency Initiative), che monitora la titolarità effettiva dei fondi e insiste sulla lavorazione locale. Tuttavia, una visione mineraria africana per un’industria che favorisca lo sviluppo e non solo l’estrazione – elaborata già nel 2009 dall’Unione Africana – non è stata ancora pienamente realizzata “a causa delle risposte politiche variegate e incoerenti da parte dei governi”.
Un’Opec dei minerali
L’idea rilanciata dall’ex ministro durante il dibattito è di decidere collettivamente i prezzi dei minerali, “come fatto dall’Opec per il petrolio”, per evitare una competizione al ribasso e garantire maggiori benefici ai paesi produttori. Una proposta su cui concorda anche Cravinho dal lato europeo: “Penso che possiamo ottenere un vantaggio competitivo se siamo in grado di strutturarci” ha spiegato. “Ciò richiede tempo, molto impegno e molta competenza tecnica, meccanismi di stabilizzazione dei prezzi dei minerali che possono darci un vantaggio fondamentale: venite con noi e avrete prevedibilità, andate con gli altri e sarete esposti alla volatilità”.
Anche James Kenny, cofondatore e amministratore delegato di Frontier Rare Earths, una società con sede in Europa che ha progetti minerari nell’Africa meridionale, si è detto “assolutamente d’accordo” sul fatto che i giorni in cui l’Africa esportava materie prime sfuse e minerali grezzi non lavorati sono finiti. “Ci deve essere una valorizzazione all’interno del paese. I benefici devono essere trasferiti alla comunità locale”, ha affermato, auspicando un maggior supporto governativo per finanziare le infrastrutture e la gestione dei rischi.
Partnership strategiche oltre l’asse Europa-Africa
Sul fronte delle alleanze, è emerso che l’Europa avrebbe interesse a collaborare con partner dotati di maggiore capacità mineraria, come gli Stati del Golfo (che dispongono di capitali e interesse in Africa) e paesi come Giappone e Canada (esperti nell’integrazione industriale), per promuovere standard di governance e interessi comuni. “Siamo in competizione con chi è felice di minare questi standard” ha puntualizzato Cravinho “perché questo dà vantaggi sia nel breve periodo, in termini di accordi immediati, sia nel lungo periodo, perché può gestire molto meglio le situazioni in cui non esistono meccanismi appropriati”.
Per questo l’inviato Ue per il Sahel ritiene che europei e occidentali dovrebbero “puntare i riflettori sulla realtà delle pratiche minerarie nei paesi che sostengono di avere un approccio diverso”, con un riferimento implicito alla Cina. L’approccio di Pechino prevede tradizionalmente infrastrutture come strade e porti in cambio di risorse. Tuttavia, come ha precisato Procopio, la Cina sta intensificando il suo approccio per aggiungere valore in Africa, non limitandosi più solo alle infrastrutture.
Il modello sudafricano
Gli esperti hanno concordato che questa è la strada da seguire, facendo un ulteriore passo avanti per la crescita dell’industria locale. Su questo punto Kenny ha citato come best practice quella del Sudafrica dove, per ottenere i permessi minerari, le aziende devono sviluppare un piano sociale e lavorativo che dimostri come intendono migliorare le comunità locali. L’obiettivo è creare benefici immateriali, posti di lavoro, infrastrutture e alloggi. Il Sudafrica richiede inoltre una “partecipazione economica del 26% per i sudafricani storicamente svantaggiati” nei progetti minerari. In generale, ha spiegato l’imprenditore, le regole sono “molto chiare” e la chiarezza è un fattore che attrae gli investitori internazionali.
Un equilibrio necessario per il futuro
La sfida è replicare questo approccio su scala continentale, superando decenni di sfiducia e costruendo meccanismi di cooperazione che garantiscano stabilità dei prezzi, trasparenza e reale trasferimento di competenze. L’alternativa è lasciare spazio ad attori meno trasparenti che, pur promettendo rapidità e meno condizionalità, rischiano di perpetuare modelli estrattivi dannosi per lo sviluppo africano. La posta in gioco non è solo economica: dalla capacità di Europa e Africa di collaborare efficacemente dipenderanno la sicurezza degli approvvigionamenti strategici, la competitività tecnologica occidentale e, in ultima analisi, la possibilità stessa di realizzare la transizione ecologica globale.
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