di: Ernesto Sii | 8 Aprile 2025
“È tempo di agire, non solo per decarbonizzare, ma per dare energia all’Africa”. Con queste parole Abdula Rahim, vice ministro dell’Energia della Sierra Leone, ha aperto il suo intervento durante il panel “Shaping Energy Transition According to Africa’s Priorities” della seconda conferenza organizzata a Nairobi (Kenya) da Inaet, la rete panafricana e internazionale dedicata alla transizione energetica in Africa. Un messaggio chiaro che ha attraversato tutti gli interventi: l’Africa non può più essere un destinatario passivo di soluzioni pensate altrove, ma deve guidare la propria traiettoria energetica. A modo suo.
Rahim ha insistito sul fatto che la transizione energetica africana non può limitarsi a imitare modelli esterni, ma deve essere profondamente radicata nelle realtà locali. “La transizione deve creare lavoro, aiutare donne e giovani ad avere una vita migliore”, ha detto. Secondo il vice ministro, questo è l’unico modo per rendere la transizione “giusta”: “Energia per alimentare catene del valore, nuove industrie, nuovi posti di lavoro. La transizione deve includere chi finora è rimasto escluso”.
La Sierra Leone sta puntando su rinnovabili e clean cooking, ma Rahim è chiaro: la transizione non è un’opzione. È un imperativo. E deve marciare in parallelo con le strategie occupazionali. “Non possiamo più permetterci di rimanere indietro”, ha affermato, invocando un nuovo paradigma in cui le politiche energetiche siano disegnate per chiudere i gap strutturali, non per ampliarne di nuovi.
Sulla stessa lunghezza d’onda, Richard Muyungi, special advisor sul clima della presidente della Tanzania, ha dato una scossa all’uditorio con toni provocatori ma profondamente politici. “Vi siete condannati, ora dovrete consegnare risultati, la rete deve diventare operativa e portare risultati, non possiamo più permetterci annunci vuoti” ha detto ironicamente, chiamando tutti i presenti all’azione. Alla conferenza di Nairobi partecipano rappresentanti di vari governi africani (dal Kenya alla Sierra Leone, passando per la Tanzania) centri di ricerca e università di altri Paesi del continente (dal Sudafrica ai paesi del Nord Africa e dell’Africa Occidentale), rappresentanti di organismi internazionali (Banca Mondiale, Ifc) e di istituzioni internazionali, ma anche aziende, associazioni settoriali e studiosi di temi energetici.
Muyungi ha sottolineato la portata strutturale della transizione: “Non si tratta solo di cambiare tecnologia, ma di creare un nuovo ordine mondiale”. Un ordine che riconosca all’Africa il diritto di beneficiare delle proprie risorse e di ricevere investimenti proporzionati al suo potenziale. “Un continente ricco, ma povero: dobbiamo rompere questo paradosso”, ha detto, interrogandosi su come assicurare che i profitti derivanti dall’estrazione dei minerali critici africani ritornino alle popolazioni. “Non possiamo continuare con le stesse politiche degli ultimi 100 anni”, ha ammonito, auspicando una trasformazione della governance globale, multilivello e inclusiva di società civile, imprese, accademia.
A riportare l’attenzione sulla concretezza dei bisogni africani è stato Andrew Kamau, esperto di energia presso il Center on Global Energy Policy della Columbia University. La sua analisi ha messo in discussione molte delle narrazioni dominanti. “Dicono che il solare è la fonte più economica. Se è così, perché in Africa tutti hanno ancora un generatore diesel e non pannelli solari?”, ha domandato, evidenziando il divario tra teoria e realtà.
Kamau ha ricordato come il continente si trovi di fronte a sfide gigantesche: la popolazione più giovane al mondo, la più rapida urbanizzazione globale, un deficit di oltre 100 milioni di abitazioni. “Mattoni e acciaio non si producono col solare”, ha detto, sottolineando la necessità di diversificare le fonti energetiche per sostenere la costruzione di case, la conservazione del cibo, la produzione industriale e – non meno importante – la creazione di posti di lavoro.
Il panel ha visto anche gli interventi di Feisal Hussain, direttore finanziario di Clean Cooking Alliance, e di Vincent Kitio, responsabile delle soluzioni energetiche urbane per UN-Habitat.
Dal panel è emerso chiaramente il messaggio che la transizione energetica africana sarà giusta solo se sarà africana nelle sue priorità, nella sua governance, nei suoi benefici. Dal clean cooking alle grandi infrastrutture, dalla decarbonizzazione all’industrializzazione, “l’energia deve essere il motore di uno sviluppo equo e sostenibile, non un’altra occasione persa” come ha sottolineato David Chiaramonti, professore di economia energetica al Politecnico di Torino, moderatore del panel.
In definitiva, come ha sintetizzato Rahim, “la transizione non è solo un’opportunità tecnologica. È una scelta morale. E deve essere al servizio della dignità delle persone”.
© Riproduzione riservata