di: Céline Dominique Nadler | 2 Settembre 2025
A dieci anni dal primo e storico rapporto del Panel di Alto Livello (Hlp) dell’Unione Africana (Ua) allora guidato dall’ex presidente del Sudafrica, Thabo Mbeki, che per primo aveva quantificato la portata devastante dei flussi finanziari illeciti (Iff), è stato pubblicato un nuovo bilancio ufficiale. Il recente rapporto del Segretariato dell’Ua intitolato “Successi e Sfide nell’Attuazione delle Raccomandazioni del Panel di Alto Livello dell’Unione Africana sui Flussi Finanziari Illeciti” giunge a una conclusione tanto netta quanto preoccupante: nella lotta contro la fuga di capitali, l’Africa sta perdendo.
A conferma vengono forniti numeri sconcertanti: la perdita annuale, un tempo stimata in circa 50 miliardi di dollari, è ora salita a 88 miliardi di dollari, secondo dati recenti della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (Unctad). Un’emorragia finanziaria che prosciuga risorse essenziali per la crescita e la riduzione della povertà e si contrappone a un fabbisogno di finanziamento per lo sviluppo che l’UA stima in 194 miliardi di dollari aggiuntivi all’anno e che la Banca Africana di Sviluppo (AfDB) quantifica in un gap totale di 402 miliardi di dollari. In effetti, i flussi illeciti non rappresentano solo una perdita diretta, ma anche un “enorme costo opportunità” per 1,5 miliardi di cittadini del continente.
Qualche progresso in corso
Un dato positivo emerge tuttavia dal rapporto: la sensibilizzazione sul tema è cresciuta e sono stati compiuti notevoli progressi nell’affrontare gli Iff. In risposta alle raccomandazioni del 2015, molti Stati membri dell’Ua hanno compiuto passi avanti nella costruzione di un’architettura istituzionale per contrastare il fenomeno.
Infatti il nuovo rapporto osserva che sono state istituite Unità di Intelligence Finanziaria (Fiu), Unità per i Grandi Contribuenti e database sulla Titolarità Effettiva. Inoltre, quasi tutti i Paesi del continente analizzati dispongono di agenzie anti-corruzione e hanno creato unità specializzate sui prezzi di trasferimento (Transfer Pricing Units) all’interno delle autorità fiscali.
Tuttavia, il nuovo rapporto sottolinea come questa impalcatura sia fragile e la sua efficacia rimanga limitata a causa di diverse barriere persistenti. La creazione di istituzioni non è stata accompagnata da un reale rafforzamento delle loro capacità operative, né da una cooperazione sinergica. Come afferma il documento, “c’è molto che può essere fatto meglio e in modo diverso”, evidenziando “l’urgente necessità di cambiamenti a livello continentale”, specialmente di fronte a tecnologie che rendono sempre più facile nascondere le tracce del denaro.
Un mix di vulnerabilità strutturali all’origine del fallimento
Il fallimento nel contenere i flussi illeciti affonda le radici in una serie di debolezze strutturali dell’Africa che il nuovo contesto geopolitico ha solo aggravato. Innanzitutto il rapporto denuncia la mancanza di coordinamento nel continente. Dieci anni dopo, osservano gli esperti dell’Ua, “l’Africa è ancora divisa nelle sue azioni contro gli Iff”. Nonostante gli sforzi, è stato ottenuto “poco successo nella creazione di una piattaforma di coordinamento continentale efficace”.
Anche il Consortium to Stem Illicit Financial Flows, principale organo africano di coordinamento, ha visto rallentare le sue attività a causa di una serie di ostacoli, tra cui mancanza di impegno istituzionale, assenza di una visione condivisa, capacità insufficiente e politiche interventiste dei donatori internazionali, che spesso spingono a concentrarsi sulla lotta al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo piuttosto che sui flussi commerciali illeciti, i quali costituiscono però quasi il 70% del totale.
La vulnerabilità agli shock esterni è un’altra causa della lenta evoluzione. La struttura economica del continente è un fattore di rischio primario e l’elevata dipendenza dalle esportazioni extraregionali, che dal 1995 oscilla tra l’80% e il 90%, rende l’Africa estremamente vulnerabile ai rischi geopolitici. Questa situazione è aggravata da una profonda dipendenza dalle materie prime e dal settore estrattivo, strettamente correlata all’incidenza degli Iff.
Oltre al fardello del debito, con i crescenti obblighi di servizio del debito estero che non solo prosciugano preziose risorse finanziarie, ma esasperano anche la fuga di capitali, rendendo il continente ancora più vulnerabile, il rapporto dell’Ua registra lacune evidenti a livello nazionale. Le banche dati doganali sono insufficienti e di bassa qualità, rendendo difficile contrastare la manipolazione delle fatture commerciali. I database sulla titolarità effettiva, sebbene esistano, non vengono utilizzati efficacemente a causa della mancata integrazione dei sistemi tra le varie agenzie governative.
Allo stesso modo, l’applicazione delle leggi è debole, con le unità sui prezzi di trasferimento che dispongono di capacità “estremamente basse”. Infine, la regolamentazione del settore bancario e, soprattutto, di quello non bancario (uffici di cambio, fintech, cooperative di credito) rimane titubante, creando canali per la fuoriuscita di capitali.
Gli strumenti inutilizzati
Il rapporto critica aspramente l’attuale paradigma della “Mobilitazione delle Risorse Nazionali” (Drm), definendolo un quadro che impone un onere eccessivo sulla tassazione e conduce alla “finanziarizzazione dello sviluppo dell’Africa” e a un debito inutilmente elevato. Si raccomanda invece un nuovo approccio, la “Creazione e Mobilitazione delle Risorse Nazionali” (Drcm), che si concentri sulla creazione di finanza interna per ridurre la dipendenza dai finanziamenti esteri, identificati come la “causa principale degli Iff commerciali”.
Un altro degli strumenti più potenti a disposizione del continente rimane largamente inapplicato: la Posizione Comune Africana sul Recupero dei Beni (Capar). Concepita come strumento politico per identificare e rimpatriare i beni rubati, la sua applicazione è ostacolata dalla difficoltà nel tracciare i beni, dal ruolo controverso dei finanziamenti dei donatori e da problemi di capacità.
Appello a un’azione concreta
Il verdetto del rapporto 2025 non è una condanna, ma un appello urgente all’azione. L’architettura istituzionale esiste, ma va resa operativa, così come le lacune identificate vanno colmate.
La soluzione più appropriata per frenare gli Iff è che il continente si concentri sul finanziamento della propria crescita attraverso i propri sistemi finanziari e monetari, riducendo la dipendenza dall’estrazione di risorse naturali per ottenere entrate fiscali e garantendo la propria sovranità monetaria.
Gli autori del rapporto spingono anche per la realizzazione di una piattaforma di coordinamento inclusiva e legittima. Per loro, a dieci anni dal primo grido d’allarme, è tempo di superare le divisioni e le strutture frammentate e gli attori statali e non statali devono lavorare a stretto contatto per massimizzare l’impatto.
Infine l’Ua chiama a instaurare azioni politiche nazionali snelle ed efficaci contro gli Iff. Questo richiede il rafforzamento dell’applicazione della legge, la cooperazione tra agenzie e la creazione di capacità per i funzionari pubblici.



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