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Diaspore e infrastrutture

di: Massimo Zaurrini | 17 Giugno 2025

L’Africa ha esigenze infrastrutturali stimate tra i 130 e i 170 miliardi di dollari l’anno, mentre i finanziamenti disponibili si attestano mediamente sugli 80 miliardi di dollari, una differenza che riduce il potenziale di crescita e la capacità di migliorare servizi essenziali come energia, trasporti, acqua e digitale. Quello del finanziamento delle molte necessità infrastrutturali è uno dei grandi grattacapi di chi si interessa allo sviluppo dell’Africa. A complicare il quadro contribuiscono la crisi del debito, il rischio per i Paesi africani di finire in “trappole” finanziarie e infine quello che, almeno nel breve periodo, sembra delinearsi come una nuova tendenza: l’arretramento della cooperazione internazionale, con molti dei tradizionali donors impegnati a rivedere i bilanci e ad aumentare le spese militari. Ad oggi i governi africani restano i maggiori investitori nel loro settore infrastrutturale, garantendo oltre il 40% dei finanziamenti. Gli investimenti esteri (bilaterali e multilaterali) coprono circa il 35% e un ruolo rilevante, ma in calo, lo hanno istituzioni come la Banca mondiale e Paesi come la Cina. Una fetta minoritaria però in crescita è quella del settore privato, che rappresenta oggi una componente tra il 10 e il 20% dei fondi impegnati annualmente. Quanto ai comparti destinatari, circa il 70-75% dei finanziamenti si concentra su trasporti ed energia, ed è in rapida espansione l’ambito delle Ict, quindi il digitale. Sono invece ancora sotto-finanziati settori come quello idrico e quello legato a infrastrutture sociali, come scuole e strutture sanitarie.

La questione del livello ancora insufficiente di investimenti infrastrutturali è stata affrontata in un recente e interessante rapporto di 48 pagine realizzato dalla Africa Europe Foundation e intitolato The Missing Connection: Unlocking Sustainable Infrastructure Financing in Africa. Presentato al vertice Finance in Common tenuto in Sudafrica a fine febbraio, il rapporto ribadisce ai governi africani la necessità di rafforzare la mobilitazione di risorse interne (aumentando la base fiscale, combattendo l’evasione e i flussi finanziari illeciti, e migliorando l’efficienza della spesa pubblica) e di coinvolgere di più i fondi pensione e fondi sovrani. Accanto a queste suggerisce però anche un’altra strada, in un paragrafo intitolato Esplorando soluzioni innovative, e cioè di prendere in considerazione le rimesse dei migranti africani all’estero. Il valore delle rimesse in Africa è molto elevato (per il 2022 sono stati calcolati 96 miliardi di dollari) e secondo lo studio, se anche una piccola parte di queste risorse fosse incanalata in forme di investimento «sicure e trasparenti», ne risulterebbe un grande contributo. Il rapporto evidenzia che le diaspore africane sono già una fonte stabile di capitali e ricorda come alcuni Paesi africani (tra cui Etiopia, Egitto, Nigeria) abbiano lanciato i diaspora bonds, obbligazioni pensate per i cittadini espatriati per finanziare progetti in settori come energia, trasporti, sanità e istruzione. La Grande diga del rinascimento etiopico, per esempio, è stata sostenuta in parte dai bond della diaspora e donazioni dei lavoratori locali. Lo studio sottolinea come questo strumento, da un lato, permetta di ridurre il rischio di rifinanziamento legato alle fluttuazioni dei mercati finanziari internazionali e, dall’altro, crei un collegamento “emozionale” con il progetto, rendendo le comunità all’estero più propense a investire.

 

Questo editoriale è apparso sul numero di aprile 2025 di Africa e Affari, disponibile per l’acquisto qui in formato cartaceo e qui in formato digitale.

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