di: Michele Vollaro | 29 Novembre 2025
Guardando solo alla riga finale del bilancio, si potrebbe parlare di un passo indietro. Dai quasi 35 miliardi di dollari di interessi agli investimenti raccolti nel 2023, l’edizione 2025 dell’Africa Investment Forum (Aif) – la piattaforma transazionale promossa dalla Banca africana di sviluppo (AfDB), giunta quest’anno al suo sesto appuntamento – si è chiusa venerdì a Rabat con una cifra di 15,2 miliardi. Ma fermarsi all’aritmetica sarebbe un errore. Nei corridoi del Sofitel Jardin des Roses, trasformato per tre giorni in quella che la ministra dell’Economia marocchina Nadia Fettah Alaoui ha definito una “sala macchine” dell’economia continentale, è andato in scena un cambio di paradigma ben più profondo.
La priorità del presidente della Banca africana di sviluppo (AfDB), Sidi Ould Tah, non è stata quella di accumulare protocolli d’intesa, ma di alzare l’asticella della qualità. Dei numerosi dossier possibili, solo 39 progetti sono arrivati nelle “Boardrooms”, le stanze dei bottoni a porte chiuse. Il criterio di selezione è stato rigido: essere “investment ready”, ovvero presentarsi con studi di fattibilità completi, valutazioni di impatto ambientale già effettuate e modelli finanziari solidi. “Non siamo più nel tempo delle lamentele”, ha detto Ould Tah, “siamo nel tempo dell’esecuzione”.
Due terzi di questi dossier riguardavano i settori chiave dell’energia e dei trasporti . “Ciò che conta non è annunciare un numero a fine giornata, ma assicurarsi che le promesse si trasformino in realtà concreta sul terreno”, ha ribadito il presidente di AfDB. Per monitorare questo impegno, l’organizzazione ha introdotto una novità metodologica: una “scorecard” pubblica per tracciare il tasso di conversione tra gli interessi espressi a Rabat e i cantieri effettivamente aperti nei prossimi mesi.

Il risveglio del capitale domestico e la sfida del rating
La vera novità politica di Rabat 2025 è stata la presa di coscienza sulla sovranità finanziaria. Per la prima volta, il dibattito non ha ruotato solo su come attrarre capitali esteri, ma su come sbloccare quelli africani. A mettere sul tavolo il numero che ha fatto più rumore è stato Serge Ekué, presidente della Banca di sviluppo dell’Africa Occidentale (Boad): 4.000 miliardi di dollari. È questa la stima della liquidità detenuta da fondi pensione, assicurazioni e banche del continente, che però resta spesso “dormiente” in titoli di Stato a breve termine o parcheggiata in valuta estera per un’eccessiva avversione al rischio.
Il freno principale è regolatorio: molti investitori istituzionali africani non possono, per statuto, investire in infrastrutture che non abbiano un rating elevato dalle agenzie internazionali. È qui che si gioca la partita della futura Agenzia di rating africana. Non più un vezzo politico, ma uno strumento tecnico necessario per eliminare quel “premio del pregiudizio” che rende il costo del capitale in Africa ingiustificatamente alto.
Interpellata da Africa e Affari su questo punto durante la conferenza stampa finale, Wegoki Mugeni, direttrice operativa della Trade and Development Bank (Tdb), ha confermato che il cambiamento è già in atto: “In diversi mercati i regolatori stanno già modificando le norme per permettere agli investitori istituzionali di basarsi su rating non tradizionali”, ha spiegato. L’obiettivo dell’Agenzia sarà creare “un unico standard di riferimento” per tutto il continente, permettendo ai fondi pensione di valutare i rischi con occhi africani e non solo attraverso le lenti di New York o Londra.
Il modello Italia e il Piano Mattei
In questo scacchiere, l’Italia si è mossa con un tempismo che non è passato inosservato. Il Piano Mattei non è atterrato a Rabat come l’ennesimo fondo bilaterale isolato, ma è stato integrato nell’architettura multilaterale. La conferma è arrivata da Max Magor Ndiaye, direttore delle sindacazioni dell’AfDB, che ha promosso il modello del “Mattei Plan Financing Facility” ospitato dalla Banca. “Questi fondi ci permettono di colmare il gap che da soli non potremmo coprire”, ha spiegato Ndiaye rispondendo ad Africa e Affari, sottolineando come i capitali agevolati italiani servano a mitigare i rischi dei progetti, rendendoli appetibili per i privati.
Un approccio cooperativo sigillato anche dall’accordo tra Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e la sua omologa marocchina Cdg Invest, entrata nella piattaforma Growth and Resilience Platform for Africa (GRAf).
I gigaprogetti e il futuro dell’Aif
Sul fronte industriale, l’Aif 2025 sarà ricordato per il ritorno delle grandi infrastrutture fisiche, ma con una logica di project finance privata. L’esempio lampante è il nuovo aeroporto di Bishoftu in Etiopia: un’opera da 12,5 miliardi di dollari complessivi, strutturata con un mix di debito e capitale proprio e un meccanismo di protezione dei flussi di cassa degno di Wall Street. Oppure il Corridoio di Lobito, la ferrovia che collegherà le miniere di Zambia e Repubblica democratica del Congo all’Atlantico attraverso l’Angola, definita dal ministro zambiano Situmbeko Musokotwane “un progetto interamente privato”, figlio della lezione imparata dopo il default del debito sovrano.
Che la formula dell’African Investment Forum funzioni lo dimostra la competizione per il futuro. Chiusi i lavori in Marocco, è già scattata la corsa diplomatica per ospitare l’edizione 2026. L’AfDB ha confermato di aver ricevuto candidature ufficiali da Angola ed Etiopia, pronte a sfidare il Marocco per diventare il prossimo hub del business africano. Segno che, al di là della cifra finale, l’Aif è ormai percepito come il luogo dove, come ha ricordato la ministra Fettah, “non si chiedono favori, ma si costruiscono partnership”.
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